Ingredienti di storytelling per il Personal Branding

Abbiamo chiesto a Mafe De Baggis, autrice del libro “#Luminol, tracce di realtà rivelate dai media” e consulente di comunicazione e di progettazione di ambienti sociali online, di parlarci di storytelling per il Personal Branding.

Se vuoi piacere a tutti non piacerai a nessuno: non sei un prodotto di massa che deve essere scelto in mezzo a tantissimi altri simili su uno scaffale affollato e che per parlare a chiunque è costretto a usare codici e riferimenti universali. Anzi, voler piacere a tutti è una pessima scelta anche per un prodotto di massa, quindi togliamocelo dalla testa: il primo passaggio indispensabile per lavorare al proprio brand personale è scegliere a chi possiamo rinunciare o, meglio, in positivo, a chi vogliamo piacere.

Per farlo è utile avere ben presente che anche sul lavoro siamo portati a scegliere un professionista che sia simile a noi, anche se ovviamente con caratteristiche e competenze complementari. Ma cosa vuol dire essere simili, soprattutto quando la prima impressione si  forma online? Può aiutarci un po’ di #Luminol, cioè la capacità di guardare oltre le apparenze e di leggere i sottotesti, i messaggi impliciti e quella che per i linguisti è la “struttura superficiale” delle nostre comunicazioni. Ho individuato per voi tre #Luminol su misura per il personal branding: il respiro, il linguaggio e la cultura.

Per lo psicoterapeuta Mauro Pellegrini (http://www.formevitali.it/) noi siamo a nostro agio con persone che hanno un respiro o un passo simile al nostro: inspirare ed espirare insieme è una forma di sintonia invisibile eppure molto potente e democratica, perché va al di là delle somiglianze superficiali. Cosa vuol dire respirare insieme online? Per esempio avere tempi e ritmi simili, ma anche stili e formati equivalenti. Chi è sempre di corsa tollera poco chi prende il suo tempo prima di rispondere, chi cura moltissimo la forma è poco a suo agio con chi preferisce condividere velocemente quello che pensa e così via.

Il respiro, metaforicamente, ha a che fare con il nostro ritmo interiore, elemento fondamentale per scegliere gli interlocutori che vorremmo ci scegliessero. 

Il secondo filtro inconsapevole che ci fa scegliere o scartare qualcuno è il linguaggio, anche in questo caso usato in senso molto ampio. Vestirsi è un linguaggio, la scelta dello strumento di comunicazione comunica, così come i social media su cui siamo attivi e i sistemi di rappresentazione che utilizziamo. Ognuno di noi infatti ha un sistema di rappresentazione sensoriale prevalente: semplificando molto possiamo essere visivi, uditivi o cenestesici e usare, senza rendercene conto, verbi e parole estremamente condizionate dal nostro senso più sviluppato. Il linguaggio poi fa da filtro anche in modo più evidente: siamo più a nostro agio con chi usa parole, forme e immagini mentali simili ai nostri. Pensate per esempio in molte zone d’Italia quanto l’uso del dialetto o di una forte cadenza regionale può avvicinare o infastidire o alla difficoltà che abbiamo a scegliere persone che, a seconda del nostro stile, usano un linguaggio troppo forbito o fanno numerosi errori di grammatica.

Il terzo filtro è un sottoinsieme del linguaggio: i riferimenti culturali condizionano inesorabilmente il nostro giudizio delle persone che incontriamo. Libri, film, autori, cibi, luoghi, abitudini ci fanno sentire vicini o lontani a uno sconosciuto creando un terreno fertile o difficile per una relazione ancora prima di esserci formati un giudizio.

Ritmo, linguaggio e riferimenti creano e alimentano le nostre semiosfere e cioè le basi del nostro vedere e comprendere il mondo: condividere anche solo in parte una semiosfera significa capirsi al volo, fidarsi e sentirsi a proprio agio, cioè le basi di una scelta e poi di una buona relazione professionale. Al contrario avere semiosfere lontane significa dover fare molta più fatica per comunicare: si può fare, ma deve valerne davvero la pena. Ogni volta che ho individuato una distanza linguistica, denunciata dalla necessità di continue richieste di spiegazione, mi sono pentita di aver insistito: potendo scegliere meglio lavorare solo per clienti e con fornitori con cui c’è una solida base condivisa di partenza.

Scegliendo a chi vogliamo piacere abbiamo iniziato a lavorare a quello che possiamo definire il nostro storytelling personale e cioè a vederci come il personaggio di una storia. Vederci come un personaggio ci permette di mettere in scena il nostro sé migliore e quindi di essere naturali, ma non forzatamente spontanei. Ma come facciamo a declinare questo personaggio in concreto? Possono bastare anche piccoli tocchi perché non dovendoci più preoccupare di convincere tutti possiamo rivolgerci a quel sottoinsieme di persone in grado di leggere e cogliere questi segnali. Un paio di esempi? Tra i nickname che uso sui social media ci sono Perkypat, Trillian e Allegra Geller: tre personaggi poco noti della fantascienza, tre figure di donne molto lontane da me e per me indispensabili per suggerire che sono molto diversa da quello che sembro. In rete mi sono firmata a lungo anche Alison Poole, che è un personaggio condiviso tra Jay McInermey e Bret Easton Ellis: il bello di vestire un nickname di questo tipo è che porta a comportarti di conseguenza, influenzando i tuoi comportamenti e i tuoi contenuti comunicando anche a chi non coglie immediatamente il riferimento culturale (ma chi lo coglie gode molto). Il secondo esempio è meno sofisticato e molto utile per evitare future delusioni: un mio difetto è che, pur essendo attenta e puntuale, non sono impeccabile e precisa. Se cercate un consulente creativo, ossessionato dalla comunicazione implicita e con una visione, contate su di me, se avete bisogno di metodo e precisione non sono la risorsa migliore. Il mio modo per comunicarlo è abitare i social media con uno stile scazzato, possiamo definirlo uno shabby chic digitale: il mio sito e i miei account hanno sempre qualcosa fuori posto, esattamente come me.

Tutto questo non va studiato freddamente e in astratto, anzi, come spiega bene Alessandra Farabegoli, non andrebbe studiato per niente prima per essere solo messo a punto durante e dopo (con il digitale si può fare):

Personal branding, networking, PR, tutta la comunicazione, funzionano tanto meglio quanto meno ti concentri su di loro, ma mantieni il fuoco sulle tue intenzioni, lasciando che il resto si allinei in una sequenza naturale.

D’altra parte se sposate il “chi si somiglia si piglia” non potete rischiare di prendere un cliente che somigli a qualcun altro: l’obiettivo del personal branding non è piacere alle masse, ma farsi trovare da chi ha bisogno di te.

PS: mentre scrivo una vocina dentro di me dice “Non dirlo! Sei pazza? Non dirlo!” quindi sappiate che la prima ad aver paura di scegliere sono io, ma ho imparato che è meglio farlo prima, che subirne le conseguenze dopo.”

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One comment on “Ingredienti di storytelling per il Personal Branding

  1. Roberta ha detto:

    Splendido articolo pieno di spunti. Da leggere e rileggere e rileggere,
    Grazie Mafe.

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